Il cuore della montagna non è un romanzo fantasy, eppure in un certo senso deve la sua nascita proprio a questo genere. Che a me piace: Il Signore degli Anelli è uno dei miei libri preferiti e, negli anni, l’ho letto quattro volte.
Per effetto dei romanzi della Rowling (anche quelli li ho letti con molto piacere) nei primi anni 2000 abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di narrativa fantasy. Il successo della saga di Harry Potter ha prodotto una scia in cui si sono inseriti centinaia di scrittori (alcuni talentuosi, altri meno).
In una soleggiata giornata estiva, mentre passeggiavo con i miei figli lungo un sentiero della Val Gardena, mi si è manifestato questo pensiero: immersi in queste storie fantasy, non c’è il rischio che alcuni tra i ragazzi si convincano di non poter influire sul mondo, di non poter fare cose grandi, solo perché non dispongono della magia o di super-poteri? Non c’è il pericolo che rinuncino a combattere il male solo perché lo incontrano in forme meno nette, meno “distillate” di quelle a cui sono stati abituati dalle narrazioni prevalenti?
Onestamente, non so se questa ipotesi abbia un fondamento, ma è ciò che ha messo in moto il mio desiderio di scrivere un romanzo non-fantasy. E, camminando lungo quel sentiero, ha preso forma la prima idea della storia, a cui sono sempre rimasto fedele: un gruppo di adolescenti si trova a confrontarsi con qualcosa di enorme, di inconcepibile e – invece di reagire con la fuga o col rifiuto – decide di affrontarlo.
La responsabilità pesa interamente sulle loro spalle, perché gli adulti non si sono accorti di quanto accade e si sono accontentati della spiegazione apparentemente più plausibile. Quindi, insieme al progetto criminale, i ragazzi devono sconfiggere anche gli ostacoli che i loro genitori – inconsapevolmente – mettono sul loro cammino.
Perché il 1975?
Non è stato sempre così: nella prima stesura il romanzo era collocato nel 2016. Simone, il mio primo editor, mi aveva suggerito questa possibilità, ma non ne ero molto convinto.
Poi, ripensandoci, ho iniziato a vedere i vantaggi di una ambientazione negli anni Settanta.
Per un giovane lettore di oggi, può essere interessante confrontarsi con un’epoca di cui non ha conoscenza diretta. Per un lettore che ha vissuto quel periodo, può essere l’occasione di ritrovarlo.
Da cosa era caratterizzato? Crisi economica e conseguente inflazione galoppante; forte contrapposizione politica (scontro tra ideologie, lotta armata) e sociale (divorzio, aborto); guerra fredda e proliferazione degli arsenali nucleari; terrorismo. Tutto questo non è l’oggetto del romanzo, ma qualcosa che resta sullo sfondo. Però è uno sfondo ingombrante, che qua e là la trama lascia intravedere e che rende il contesto storico quasi un co-protagonista.
Mi piaceva anche l’idea di raccontare le tecnologie di allora, che oggi suonano buffe: telefoni a gettoni, audiocassette, televisori in bianco e nero possono strappare un sorriso al lettore.
L’assenza dei telefoni cellulari, poi, sarebbe sufficiente a giustificare la collocazione in questo periodo, perché crea ai protagonisti difficoltà sconosciute ai ragazzi di oggi:
- Li porta a pianificare bene le azioni, perché non possono coordinarsi a distanza in tempo reale.
- In caso di difficoltà, li costringe a improvvisare senza sapere cosa sta succedendo agli altri del gruppo.
- Li spinge a inventarsi modi ingegnosi per comunicare in caso di emergenza.
- Infine, fornisce loro una libertà di cui credo che gli adolescenti di oggi non godano. Per me, i miei fratelli e sorelle, i miei amici, era così: vacanza in Alto Adige significava potersene stare fuori di casa da mattina a sera, lontani dalla sfera di influenza e di controllo dei genitori.
L’ultima l’argomentazione a favore della collocazione negli anni Settanta è la più importante: non so nulla di cosa significhi essere adolescente adesso, mentre so bene cosa significava esserlo nel 1975. Certo, alcuni temi attraversano inalterati le varie epoche, come la comunicazione tra adolescenti e genitori, che è difficile per principio… Ma – mi sono detto – perché rendermi la vita difficile raccontando qualcosa di cui non ho esperienza diretta, quando posso parlare di situazioni che ho vissuto?
Credo che scrivere, in fondo, non sia altro che questo: attingere al proprio vissuto e rielaborarlo per presentarlo al lettore sotto forma di una bella storia.
C’è un messaggio?
“Cosa vuoi dire al lettore con questo romanzo?” mi ha chiesto Simone dopo la lettura della mia prima, imbarazzante stesura.
È stata solo una delle sue tante domande provocatorie, sempre tese a farmi scavare, a farmi raggiungere l’essenza di ciò che volevo comunicare.
Se avete letto il romanzo, sapete che di messaggi ce ne sono diversi. Non roviniamo il divertimento a chi, invece, non l’ha ancora letto.
Di uno, però, voglio parlare, perché mi stava particolarmente a cuore e non l’ho mai perso di vista: gli adolescenti sono molto più competenti e responsabili di quanto i genitori normalmente non ritengano.
Non è un messaggio originale, se volete, perché c’è una lunga tradizione di film e serie TV in cui bambini o ragazzini vivono grandi avventure o risolvono casi: E.T., I Goonies, Super 8, Moonrise Kingdom, Stranger Things, per citarne solo alcuni. Meno frequenti i casi nella letteratura, se si eccettua la produzione di Stephen King, che ha molto spesso bambini o adolescenti tra i suoi protagonisti.
Se, però, eliminiamo l’elemento fantastico, il soprannaturale e la comicità, ecco che il numero scende drasticamente. In questa ridottissima categoria, menzione speciale va proprio a King per il suo bel racconto Il corpo, da cui è stato tratto l’altrettanto meritevole film di Rob Reiner: Stand by me – Ricordo di un estate.
Ma torniamo al mio messaggio: gli adolescenti, liberati dalle situazioni iper-protette in cui solitamente vengono confinati, sanno mostrare capacità che tendiamo a non attribuire loro. Creatività, iniziativa, coraggio, talento, ingegno, adattamento, intuito, generosità… la lista potrebbe essere molto lunga.
Lasciamo che sia Elisabeth a dirlo:
«Allora io voglio fare una promessa. Prometto che quando avrò dei figli adolescenti mi ricorderò di come eravamo noi alla loro età. Mi ricorderò di come eravamo in grado di cavarcela da soli. Mi ricorderò dei rischi che abbiamo corso, non perché fossimo degli incoscienti, ma perché sapevamo che c’era qualcosa che andava fatto e abbiamo deciso di farlo.»
Certo, i miei protagonisti restano adolescenti, con tutte le insicurezze che quell’età comporta. Sappiamo che tutte le situazioni e le vicissitudini che si vivono a quell’età sono un momento di crescita, ma anche di difficoltà: i legami di amicizia, gli amori giovanili, i rifiuti, i conflitti, le domande che non trovano mai risposta… Questo spero di averlo raccontato.
Però Federico, Laura, Alberto, Elisabeth, Valentina e Sabrina, liberi di compiere le proprie scelte e di metterle in pratica, riescono dove la maggior parte di noi adulti avrebbe fallito. O, più probabilmente, rinunciato.